PORDENONE – Cosa è stato e cos’è il Covid-19 nelle strutture per anziani (case di riposo) risulta difficile, perché qualsiasi informazione o aneddoto non riuscirebbe a restituire la grandezza di quanto è accaduto e la profondità dell’impatto che questa pandemia ha avuto e sta ancora avendo su tutte le persone che “vivono” le strutture; non eravamo preparati ad affrontare una situazione come quella che dalla fine di febbraio ad oggi ha colpito in modo profondo e significativo i servizi per anziani e che dovrà portare ad un ripensamento del nostro essere, perché “nessuno” sarà mai più come prima.
Le criticità che il Covid in questi primi mesi dell’anno ha comportato nella gestione dei servizi residenziali per anziani sono state molteplici ed imprevedibili, criticità materiali e contingenti o più profonde e con effetti più lunghi.
Sin da subito si è presentato il grave problema nel reperimento dei Dispositivi di Protezione Individuale che ogni servizio ha in dotazione per la gestione ordinaria delle proprie attività, ma che non era pronto ad affrontare l’enorme impatto della prevenzione per ridurre il rischio di contagio. La problematica ci ha accompagnati fin dai primi giorni della pandemia, tanto da spingere la Cooperativa Itaca a denunciare pubblicamente la situazione gravissima di carenza di DPI, ed ha vissuto varie evoluzioni con il susseguirsi della irreperibilità di mascherine chirurgiche e FFP2, tute, camici ed infine la scarsità di guanti (tuttora irrisolta).
Anche il reperimento di informazioni circa le procedure per il contenimento dell’infezione è stata critica: tra marzo e giugno si sono susseguiti moltissime informative e procedure per la gestione della pandemia, con il susseguirsi dei DPCM, dei rapporti dell’ISS, di procedure e protocolli provenienti dalle singole aziende sanitarie che ci evidenziavano quanto l’intero sistema non fosse preparato ad affrontare la pandemia.
L’altro grave problema che ha riguardato le case di riposo è stata l’assenza di personale: a causa di picchi di malattia e infortuni (che in alcune strutture ha sfiorato il 70% del personale), molti operatori sono dovuti rimanere a casa per lunghi periodi di isolamento preventivo o di guarigione dal contagio, il tutto purtroppo durante l’iniziale periodo di organizzazione dei servizi sanitari pubblici per la gestione dell’emergenza (ad esempio nella gestione tamponi nasofaringei da eseguire nei diversi momenti della gestione del contagio).
Ovviamente tale situazione di carenza di personale si è trasformata in sovraccarico lavorativo e psicologico per gli operatori che rimanevano in servizio a gestire una situazione di emergenza che non è riconducibile al tipo di lavoro che caratterizza le strutture per anziani, che per definizione si connotano come servizi socio-sanitari in cui la rilevanza sociale degli stessi è sempre stata protetta e rinforzata, sia normativamente che progettualmente.
È stato difficile riorganizzare e ripensare le strutture, i servizi interni ed i nuclei per dare attuazione alle misure di contenimento dell’emergenza sanitaria: ogni volta che una persona risultava positiva si rendeva necessario riorganizzare la vita di tutte le persone che vivevano in quel nucleo, al fine di garantire la salute delle persone non contagiate e per offrire la migliore assistenza possibile alle persone colpite dal virus; il tutto era reso ancora più complesso dalla presenza di anziani fragili che necessitano sempre di una custodia personale e di una cura attenta ad ogni impercettibile cambiamento nel loro mondo.
Tra le misure che sicuramente hanno fatto capire la “grandezza” di ciò che stava capitando va ricordata la chiusura dei servizi al mondo esterno, al fine di limitare il più possibile l’ingresso dei virus nelle case di riposo. Questa decisione è stata sin da subito molto sofferta sia per chi non poteva più vedere i propri cari che per chi (infermieri, OSS, animatori, coordinatori, fisioterapisti, addetti all’igiene ambientale, addetti alle cucine e tutte le altre figure che lavorano ogni giorno nelle nostre strutture) ha visto e vissuto la tristezza nei volti e nei gesti delle persone assistite, dovendo mantenere professionalità e al contempo aumentare ulteriormente l’empatia, la capacità di amare, accompagnare, consolare e accudire gli anziani che vivevano questo allontanamento forzato dai propri affetti senza capire perché ciò stesse accadendo. Gli operatori hanno dovuto imparare a parlare con gli occhi dietro le mascherine, con gesti del corpo quando erano bardati in pesanti e sudate tute che facevano caldo al solo guardarle, con quelle mascherine FFP2 che toglievano l’aria ma che non dovevano essere toccate per evitare contaminazioni.
Gli operatori l’hanno fatto; queste persone hanno lavorato con fatica giorno e notte, talvolta con turni massacranti, mettendo da parte le loro paure, l’ansia di portare il virus a casa ai propri cari e scegliendo, in alcune occasioni, di allontanarsi dalle famiglie per liberarsi dal peso psicologico di portare la malattia in casa.
Allora ci si è inventati nuovi modi per comunicare all’esterno, andando oltre le cose che si imparano nei corsi: si sono sperimentati tablet, computer, cellulari e qualsiasi altro mezzo utile a comunicare con i familiari, sono fioccate le iniziative per far arrivare i messaggi dall’esterno (le cassette della posta, i disegni dei bambini, le lettere dei familiari, le cartoline e i regali), gli operatori hanno valorizzato la bellezza della scrittura e reso speciale ogni momento che restituisse un po’ di “calore” agli anziani, leggendo con calma e a voce alta, scandendo bene le parole e cercando lo sguardo commosso degli ospiti.
Un’operatrice disse “so che non sono i nostri nonni e che la formazione ci insegna il giusto distacco terapeutico, ma in questo momento io sono la loro nipote, figlia, moglie, compagna, sono la loro famiglia… e va bene così!”.
Tra tutte le storie che si potrebbero raccontare ne cito un paio: quella di un’infermiera, mamma di un bimbo di 1 anno, che si è trasferita volontariamente in un altro appartamento, vivendo da sola per oltre un mese per continuare a lavorare in casa di riposo; quella di un OSS di 24 anni, che piangendo a dirotto raccontava di come abbia dovuto mettere in pratica le procedure sanitarie necessarie vedendo un’anziana ospite spirare.
Adesso si ricomincia, con un po’ di timore, con una routine cambiata, riorganizzando con sorpresa e incredulità i servizi “in normalità”; quello che una volta era abituale adesso pare lontanissimo: la formazione del personale, i progetti animativi di rete con la comunità, la raccolta delle storie di vita degli anziani solo per citarne alcuni. Oggi restano dei professionisti, stanchi per il lungo periodo di emergenza, impauriti per il timore che tutto possa tornare, ma anche molto più preparati e pronti a fronteggiarla, consapevoli dell’aiuto che tutto il sistema pubblico deve garantire per il buon funzionamento di queste strutture, necessarie nella rete dei servizi essenziali per la cura della fragilità.
Anna La Diega
Vice presidente e Responsabile Area Anziani
Cooperativa sociale Itaca
Articolo tratto da Pagine Cooperative, n.1 Luglio 2020, per gentile concessione di Legacoop FVG www.paginecooperative.it