PERCHÉ LE STREGHE SONO CATTIVE?

Il 13 settembre abbiamo festeggiato i 20 anni della Comunità di Via Ricchieri in via Ricchieri. Abbiamo voluto raccontare una storia sul pregiudizio, abbiamo parlato di stigma, segno, marchio, diversità e devianza. Perché il pregiudizio è là fuori, nella società, ma anche dentro di noi, come un amuleto di cui sentiamo il bisogno.

PORDENONE – Perché le streghe sono cattive? Al numero 2 di Via Ricchieri ce lo chiediamo da vent’anni, da quando una palazzina di tre piani, sfitta da anni e rimessa a nuovo dalla Cooperativa Itaca, apre le sue nuove porte ad Angela, Rita, Ilde, Vittoria e Rosa. Le ultime di una moltitudine di “malati”, spesso dimenticati e senza nessuna speranza di “guarigione”. Quelle donne sono le ultime in Friuli Venezia Giulia a varcare la soglia dell’istituzione totale, del manicomio: perché ci vogliono più di vent’anni in questa regione per applicare la legge 180 del 1978, la legge Basaglia. Più di vent’anni per chiudere i manicomi, per chiudere quell’istituzione nata nel tardo Quattrocento tra le mura dei lebbrosari, semplicemente perché lebbrosi non ce ne erano più. Nata per relegare e dimenticare tutti coloro che deviavano dalla norma: i folli, i ritardati, i dimenticati, o semplicemente coloro di cui non si sa cosa fare o di cui ci si deve sbarazzare. Ci vogliono altri 300 anni prima di avere il coraggio di porsi delle domande sulle persone che abitano quei luoghi e altri 200 per decidere di chiuderli.

Nel Pordenonese quella chiusura significa l’apertura della Comunità di Via Ricchieri. Fabiana e Anna e Lucia c’erano, e Manuela arriva poco dopo. Credo ci possano dire che molte cose sono rimaste e molte cambiate. A partire dal delicato gioco tra speranza e guarigione.

Tra le preoccupazioni della prima coordinatrice di Casa Ricchieri c’è proprio il volere e il dovere di dare speranza. Ma cosa significa alla fine degli anni ‘90 dare speranza a persone appena uscite dall’istituzione totale: significa riportarle sul territorio, dischiudere quella dimensione a loro negata, la dimensione sociale. Quel muro eretto tra la società e le persone significa privare un animale sociale della sua stessa essenza, privare un essere umano della sua stessa umanità, della sua dignità.

I primi anni di Via Ricchieri sono improntati a dare risposte ai bisogni fondamentali e a dare maggior rilievo a una relazione assistenziale. Poi viene il primo trauma: un incendio che nel 2003 devasta la casa. È la prima di molte crisi, ma grazie a questa il gruppo riconosce una sua identità: anziché disperdersi nelle altre strutture del territorio, decide di rimanere unito in un peregrinaggio di quasi un anno attraverso Anduins, Azzano Decimo e Pordenone, aspettando la riqualificazione della palazzina.

A fine maggio del 2004 Casa Ricchieri riapre con una nuova veste. Fino ad allora era divisa in due: al primo piano una comunità maschile, al secondo una femminile, ciascuna con la propria sala da pranzo; dopo l’incendio nasce uno spazio comune, dove tutti possono consumare i pasti assieme. Nuovi spazi che portano a un nuovo modo di abitare la Comunità.

Il tempo passa. Arrivano nuovi residenti con tutt’altre esperienze di vita. Cambiano le coordinatrici: Camilla e poi Michela. L’approccio relazionale, in quel sottile gioco tra speranza e guarigione, si trasforma sbilanciandosi sempre più verso l’ascolto e la riabilitazione: si pensano progetti, si condividono percorsi, si delinea sempre più chiaramente cosa possa voler dire autonomia. E si inventa una tradizione, le “Feste di Ricchieri”, dove non si spinge semplicemente la Comunità a uscire sul territorio, ma si invita il territorio – e le persone che lo abitano – a entrare in Comunità. Una strada difficile, costellata di dubbi e domande, di crisi e rigenerazioni. Cambiano i residenti, cambiano i bisogni, cambiano le risposte. Ma la domanda rimane: perché le streghe sono cattive? Cambiano i coordinatori – Egle, Claudio, Francesco, Massimiliano -, cambiano i pensieri, le visioni, le soluzioni, cambia il mondo. Ma la domanda è sempre la stessa: perché le streghe sono cattive? Sono forse malate? C’è speranza anche per loro? Possono guarire?

Tra queste domande, da quasi tre anni, ci cimentiamo con un linguaggio nuovo, a volte ostico, il linguaggio del Visiting Dtc. È un progetto nazionale di formazione, azione e ricerca per la realizzazione di Comunità Terapeutiche Democratiche (Dtc: Democratic Theurapeutic Communities). Un linguaggio a volte freddo, tecnico, scientifico, perfino le nostre tradizionali feste vengono tradotte in una procedura analizzabile dal punto di vista quantitativo. Stiamo cercando parole nuove per riformulare la nostra vecchia domanda. Riformularla ci interroga sul senso della domanda stessa.

E interrogarci ci tiene vicini al senso delle cose e del nostro fare. Proprio come il protagonista della festa di quest’anno, il piccolo Kirikù, che non smette mai di fare domande. E ciò lo rende diverso ed emarginato: non accetta l’ovvietà tautologica del villaggio. Perché le streghe sono cattive? Perché sono streghe è ovvio, no? Kirikù vuole capire e non si ferma all’impersonale “così si dice”, “così si fa”, va oltre il pregiudizio in cerca di risposte.

Kirikù è autentico. Quando chiede un amuleto per combattere la strega e liberare il villaggio dalla malia, gli verrà risposto che la sua forza sta nell’assenza di amuleti, di superstizioni, di pregiudizi. È diverso ed escluso anche perché è tremendamente piccolo e mostra tutte le sue fragilità, ma ha coraggio e non conosce la vendetta. Kirikù ci porta lungo una storia di speranza che non si arrende davanti al pregiudizio, di una guarigione creduta impensabile e della crescita di un’intera comunità.

Kirikù si innesta in quel solco tra guarigione e speranza che oggi si chiama recovery, dove la guarigione è il senso del percorso, la speranza il suo mezzo e la comunità il suo contenitore. In quel solco germina un’altra parola nuova: empowerment. Una parola che vuole significare la presa di potere sulla propria vita, sui propri diritti, una presa di coscienza del proprio essere in una società, delle proprie responsabilità, di un’autenticità che non è emarginata, ma integrata, partecipe della vita comunitaria. Kirikù ne è il simbolo, come la strega Karabà è il simbolo del potere che il pregiudizio e l’ignoranza saccente hanno sugli esseri umani. È una donna sola che si circonda solo di ciò che è permeabile al suo potere, di oggetti e uomini trasformati in oggetti. La sua magia si alimenta di superstizioni e pregiudizi. “La strega conosce il mondo degli amuleti e si prende gioco degli uomini che si credono protetti e non diffidano più” e, quindi, non fanno più domande.

Perché le streghe sono cattive? Solo chi sa di non sapere e chi si interroga avrà risposta. Ma quella risposta non deve chiudere la domanda. La risposta rovescia il mondo: Karabà è cattiva perché soffre.

Con “Kirikù e la strega Karabà”, la fiaba che in collaborazione con Teatro A La Coque e Francesca Iommi abbiamo portato in scena nella sede della Comunità la sera del 13 settembre per festeggiare i 20 anni di Via Ricchieri, abbiamo voluto raccontare una storia sul pregiudizio. Abbiamo parlato di stigma, segno, marchio, diversità e devianza. Il pregiudizio, come in questa storia, è là fuori, nella società, nel villaggio, ma anche dentro di noi, come un amuleto di cui sentiamo il bisogno. Il pregiudizio è come una scatola cinese, scoperchiato uno, se ne trova un altro. Ogni volta che troviamo una risposta, sorgono nuove domande. Quando abbiamo paura, interroghiamoci sulla natura di quella paura. Prima di sancire mali inguaribili, chiediamoci cosa intendiamo per guarigione. Prima di dire che qualcuno o qualcosa non serve a nulla, domandiamoci cosa potrebbe essere. Prima di cercare colpe, cerchiamo i motivi. Prima di tapparci le orecchie, ascoltiamo. Pericolosità, inguaribilità, improduttività, irresponsabilità, incomprensibilità, sono i cinque pregiudizi dello stigma in salute mentale.

Se non altro in Via Ricchieri, in vent’anni, ci siamo fatti un sacco di domande.

Marco Sponga

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