Progetto Sabor, Eco Y Justo. Diario di viaggio #1
21 marzo 2017. Venezia-Londra-Bogotà
Le nubi che ci han accompagnato durante tutto il primo tratto di questo nostro lungo viaggio, si diradano proprio in concomitanza dell’attraversamento del Canale della Manica, e sotto la pancia dell’aereo, che ormai ha iniziato la sua discesa verso Londra, i raggi del sole si riflettono sulle increspature dell’acqua, si intravedono navi che solcano un mare calmo, così com’è stato questo volo. A Londra ci aspetta uno scalo frenetico, dato che da Gatwick ci sposteremo a Heathrow dove dovremmo riuscire ad imbarcarci prima delle 21 per intraprendere il nostro lungo viaggio verso Bogotà e la Colombia.
Già la forte voglia di arrivare a destinazione fa un po’ a pugni con l’idea di trovarsi sospesi in una bolla spazio/temporale come quella che si crea quando ci si trova ad affrontare un volo intercontinentale.
Heathrow, alle prime luci della sera appare come una scenografia di un film di fantascienza, una porta per l’universo e i suoi angoli più remoti. All’interno di essa, umani e bagagli vengono perlopiù spostati da nastri trasportatori che quasi sembrano vietarti ogni deambulazione autonoma… il progresso non accetta la produzione eccessiva di acido lattico.
Terminati imbarchi e controlli, finalmente saliamo a bordo per la nostra traversata oceanica, 10 ore dopo l’aeroporto di Bogotà si trova sotto di noi.
22 marzo 2017. Bogotà-Pasto
E’ l’alba e, nonostante la confusione che ci annebbia le menti, si percepisce bene la sensazione di essere giunti realmente (e finalmente) altrove.
Attendiamo ancora qualche ora l’aereo che ci porterà alla meta finale, cioè la città di Pasto, capitale della regione del Narino dove ci attendono Harold e Susanna, che saranno i nostri ciceroni in terra colombiana.
Il monopista di Pasto fa gran sfoggio di sé abbarbicato in cima ad un tipico paesaggio andino, atterrisce ed affascina allo stesso tempo. Guardandosi attorno, infatti, non ci si capacita di come un aeroporto possa trovarsi in un luogo cosi impervio e si intuisce subito quanto si è distanti da Londra o dall’Europa in genere, non solo in termini di chilometraggio.
Fuori, Susanna e Harold che ci attendono con pazienza. La prima accoglienza avviene in un tipico locale casalingo di Pasto, dove consumiamo una colazione salata a base di uova, pollo e del buon caffè colombiano.
Non è passato nemmeno un minuto e siamo già immersi in una ricca conversazione sui progetti tenuti nella zona e sulla situazione generale della Colombia. “La Colombia non è ancora pronta per una pace”, ci ha detto Harold. “Non lo sono le persone né il governo e purtroppo ci vorranno altri 15 anni per arrivare ad esserlo. Intanto, però, bisogna lavorare sul territorio e costruire delle alternative per i giovani che restano qui”.
Dopo un riposo di qualche ora in albergo per riprendere le forze, abbiamo avuto il piacere di fare una passeggiata per le viuzze di Pasto fino alla piazza principale.
La piazza, intitolata al governatore Antonio Narino, fu teatro, un tempo, di scontri cruenti tra i liberatori appartenenti al movimento indipendentista anticolonialista di Simon Bolivar e gli stessi pastuni (gli abitanti della città), più inclini alle linee di convivenza pacifica con i coloni sostenute appunto dal proprio governatore.
In tempi più recenti, più precisamente nel 2000, un’attivista per i diritti umani fu assassinata proprio in questa piazza da un gruppo di paramilitari… a testimonianza di ciò, nel luogo dell’omicidio è stata riposta una targa che cita proprio una delle frasi più celebri, e forse la più densa di desiderio di riscatto, della donna (di cui ora purtroppo non riesco a ricordare il nome): “Il mio unico rammarico è di avere una sola vita per lottare”.
23 marzo 2017
Credo che da sempre Jet-Lag e curiosità abbiano la meglio sul sonno del viaggiatore, e il nostro caso non fa eccezione. Ci ritroviamo pertanto svegli alle prime luci dell’alba, complici anche i rumori di una città che, scopriremo poi, risulta essere molto frenetica, pulsante e piena di quella vitale chiassosità latinoamericana che lascia davvero poco spazio al silenzio… in mattinata ci attendono Susanna e Ruby alla sede dell’istituto Alexandre Von Humboltd ISAIS, che altro non è che un’associazione senza scopo di lucro che in questi anni sta sviluppando progetti per la formazione, l’integrazione e lo sviluppo di tutte le comunità che in qualche modo sono state vittime del conflitto colombiano… e che con la onlus Oikos sta appunto mettendo in piedi e realizzando fattivamente uno “espacio educativo para la paz y el buen vivir”, chiamato proprio Universidad de la Paz.
Nella riunione ci concentriamo prevalentemente, vista la presenza di Ruby, che appartiene appunto alla comunità indigena del Sande, sul comprendere come si regola la vita all’interno delle numerose comunità indigene che ancora popolano la zona più interna del Narino, e di come i precetti e i saperi “ancestrali” di queste comunità debbano venire tutelati, conservati e divulgati proprio come fondamenti di un valido processo di pace. Ma anche di come le connessioni con la terra, e il rispetto di quelle che sono le regole naturali che la governano, debbano essere considerate come perno per lo sviluppo di una vita comunitaria armonica e, quanto più possibile, distante da moti di violenza… facendo un parallelismo neanche molto azzardato, si possono ricondurre i principi della decrescita serena di Serge Latouche a quelli che sono i fondamenti della “Pacha Mama”.
La forma governativa che è in vigore nelle comunità indigene del Narino si basa su una democrazia partecipata molto semplice e funzionale: il Cavildo, o per meglio dire la popolazione, elegge annualmente la Corporacion, quello che noi potremmo considerare un consiglio comunale, che solitamente è composto da 17 persone. Questa Corporacion, in seconda battuta, elegge il Gobernador e il Gobernador Suplente (diciamo sindaco e vicesindaco). All’interno del resgardo, la tutela e il rispetto di quelle che sono le regole di convivenza pacifica sono garantite dalla guardia indigena, che ha la particolarità molto interessante di non essere armata.
Passando dall’aspetto politico attuale, giungiamo poi a parlare delle caratteristiche più prettamente etno-antropologiche delle popolazioni indigene, spaziando molto sugli aspetti riguardanti la simbologia e la cosmogonia delle loro pitture e dei loro rituali. Particolarmente esemplificativa di questa ancestralità risulta essere la Pietra de Cara, testimonianza arcaica di incisioni indigene.
Nel pomeriggio ci rechiamo in visita alla zona termale del vulcano che sovrasta la città di Pasto, in quello che è stato un preludio ai paesaggi nei quali ci saremmo addentrati l’indomani.
24 marzo 2017. Pasto-Samaniego
La mattina la trascorriamo in viaggio lungo le carrettere che collegano la città di Pasto con quella di Samaniego. Il raccordo tra le due città risulta essere molto difficile e la natura attorno sembra una forza prevaricatrice, che erode e sconnette le poche sovrastrutture che l’uomo è riuscito a costruire. Questo non fa altro che acuire le difficoltà già presenti in un’ottica di sviluppo e scambio commerciale tra le varie comunità, senza contare che molto spesso le vie secondarie risultano essere impraticabili a causa della presenza di mine antiuomo, posizionate indiscriminatamente sia dalla guerriglia che dai paras, fino ad arrivare all’esercito stesso.
I piccoli agglomerati urbani rurali che incontriamo lungo il tragitto basano la loro economia sull’agricoltura, floride sono infatti le coltivazioni di caffè, patate, platani, yucca e granadilla, dentro alle quali si nascondono le ben più redditizie ma ancor più inficianti coltivazioni di coca.
Arriviamo a Samaniego e l’impatto con la città è molto morbido, dopo un breve lasso di tempo per ambientarci ci troviamo subito proiettati all’interno della riunione del comitee interetnico, che vede il suo svolgimento presso la sede di ISAIS di Samaniego.
La terza riunione del Comitee vede la presenza di un gruppo ben nutrito di persone (30 circa) in rappresentanza di quelle che sono appunto le comunità coinvolte nel processo di Dupla Paz per la pace e il buon vivere: al tavolo si presentano le comunità indigene del Sande, Guachaves e del resgardo della montagna, l’associazione delle vittime delle mine antiuomo e la comunità campesina del Chinchal.
La finalità di quest’incontro è di produrre un documento di testimonianza e di denuncia di quelle che sono state, nel corso degli anni, le violazioni dei diritti umani perpetrate al tempo stesso sia dalla guerriglia che dai paras che dall’esercito, attraverso un processo di recupero della memoria storica del territorio. E, al contempo, informare e formare le comunità coinvolte su quelli che sono realmente i diritti umani, al fine di creare una coscienza civile che diventi un’arma di tutela contro la violenza e la disumanità, che purtroppo continuano ancora ad essere presenti in questo territorio, così come in larga parte della Colombia.
Questo processo viene inserito nel concetto più ampio di Re-existencia, etimo che prende ispirazione sia dal concetto di resistenza che dal concetto di rinascita.
Il lavoro sul tavolo del comitato è cominciato proprio dal recupero storico dei casi di violazione dei diritti umani, ponendoli su un’immaginaria linea temporale e declinandola singolarmente ad ogni comunità presente. Dopo di che si è passati a sviluppare e strutturare il pensiero generale della tutela e della divulgazione dei diritti umani, cercando proprio di costruire una campagna per la promozione di tali basilari diritti, cercando poi di inserirli nel “Plan de Vida” di ciascuna comunità, quella che per noi potrebbe definirsi come una costituzione in divenire… con uno sguardo ben rivolto al futuro ma, al contempo, le radici ben piantate nel passato sia storico che ancestrale di ciascun gruppo etnico.
Le conclusioni al temine di questa giornata di lavoro non possono essere che estremamente positive. Abbiamo incontrato popolazioni che hanno costantemente vissuto nel passato e nel presente situazioni di guerra, che hanno visto i loro territori minati indiscriminatamente anche con l’imposizione di un coprifuoco quasi totale, che impediva loro qualsiasi gestione della più normale quotidianità. Popolazioni che hanno reagito e si sono unite per dare voce e forma ad una forza comune, che possa essere il motore per uscire da questa situazione devastata. Il che non è cosa comune. L’opera portata avanti con così tanta passione da Harold non può essere che di esempio per noi, che con la sofferenza ci scontriamo lavorativamente ogni giorno, sofferenza che, sebbene di natura diversa, porta in sé il pericoloso crisma dell’isolamento e del distacco, che altro non fa che togliere la possibilità di avere voce a chi già normalmente e difficilmente viene ascoltato.
Luca Mansutti e Manuela Pontoni
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