La morte di Leonardo Zanier
di Carlo Tolazzi*
LUGANO-CARNIA. Io non so se Leonardo Zanier era un poeta. Di certo era uno che ha scritto cose fulminanti e bellissime, uno che aveva sotto la corteccia dei collegamenti formidabili fra le aree cerebrali, che sapeva tirare fuori la metafora giusta, la similitudine efficace, la metonimia descrittiva. Si appoggiava ad una lingua che è di per sé un manifesto popolare, che odora di bosco e di sudore, che non capisci bene quanto l’abbia nobilitato e quanto da lui sia stata nobilitata; forse semplicemente Leonardo Zanier ha fuso in modo organico e coerente un modo di parlare con le cose che in quel linguaggio vanno espresse, ha sovrapposto perfettamente il significante e il significato del carnico, esaltandone le sonorità e portandole a livello di letteratura.Se dico le parole “sindacalismo” ed “emigrazione” scivolo verso i luoghi comuni di chi commenta Leonardo Zanier: io dico solo che la storia sta rendendo attuali le sue composizioni soprattutto se lette dalla prospettiva contraria, perché anche un siriano che approda a Lampedusa «al impara ch’a nol va par vivi, ma par no murî», e che ci si può immaginare un afghano «ch’al partìs, ch’al va. La sô valîs par tiera e un canai pa man e la femina in pits ch’a lu cjala». Non accenna scopertamente ai carnici o ai friulani Leonardo Zanier, parla di uomini, e sta qui la sua grandezza e la sua universalità, parla indistintamente dell’uomo fin dai primi segnali del suo venire al mondo, quando «no sai incjimò s’al sarà talian o svissar / intant ‘l è blanc e ros e al vai in dutas las lengas». Quanta invidia per queste associazioni cerebrali cui accennavo, che forse si formano solo se hai una vita intensa, se sei abituato ad osservare, se le cose che canti le hai patite in prima persona, se il razzismo di cui sei stato vittima non ce la fa a utilizzarti come carnefice verso gli altri.
Un ricordo personale risale a sei anni fa, quando lo stanammo a Lugano per fargli interpretare la parte di un vecchio partigiano in un film sulla repubblica libera della Carnia del 1944. Trattative laboriose, telefonate in cui la sua voce burbera non nascondeva un certo sospetto per il progetto. Poi andai a Venezia all’aeroporto per portarlo in Carnia. Comparve su una carrozzina, lo spinsi fino all’auto, ma prima di salire volle fumare, cosa proibita durante il volo. E poi via, ma già a Quarto d’Altino la mia Yaris, in cui nessuno aveva mai potuto accendere una sigaretta, ospitava col finestrino abbassato a metà le volute di fumo che quest’uomo produceva, accomodato sul sedile con le gambe accavallate stile seggiola da bar. Cordiale e affabile, persino ciarliero, alla faccia del blasone carnico. Furono due giorni intensi, lo seguivamo ovunque con una sedia su cui farlo riposare fra una ripresa e l’altra, due giorni in cui maturammo una simpatia reciproca che ebbe modo di riproporsi le poche volte in cui ci rivedemmo in seguito. Un piccolo legame, forse una cosetta da nulla, «ma parcè alora chê voia di stâ e di cori, di vaî e di vosâ apena sintût» -o appena letto su un motore di ricerca- «che Leo al è muart?».
*Drammaturgo