EDUCAZIONE SOSTENIBILE

La storia di un’esperienza lavorativa con la legge 41 nella scuola

Pordenone

Educare è una bella parola, interessante già a partire dalla sua etimologia e da quell’ idea che questo lavoro coincida con la possibilità stessa di “portare fuori” da qualche angolo buio, la vera forza delle persone nonché la loro dignità.

Anche se fare questo non è esattamente cambiare il mondo come sognavo un tempo, credo ugualmente che rappresenti abbastanza bene la mia idea di lotta e di rivoluzione. Lotta nel senso che le ingiustizie sociali continuano ad esistere e ad essere per me, motivo di grande indignazione. Rivoluzione perché contribuire a migliorare la qualità della vita di persone in situazioni di disagio e promuovere la loro integrazione è un cambiamento: sostanziale e spesso irreversibile.

Tempo fa, ripensando  alla maggior parte delle esperienze condotte, nella scuola, con le famiglie o nella rete sociale ero giunta alla conclusione che integrazione fosse solo una parola, un tecnicismo vuoto che inevitabilmente usiamo facendo questo lavoro ma che alla fine, raramente è possibile.

Troppe volte avevo visto adulti disabili definire indistintamente amici, le persone che si dimostravano disponibili e gentili perché non avendo amici veri non conoscevano certo la differenza. Troppe volte avevo visto ragazzi certificati vissuti come un peso da far gestire a insegnanti di sostegno spesso demotivati se non privi della formazione necessaria. Troppe volte infine, avevo visto colleghi entusiasti e preparati messi all’ angolo, relegati al ruolo di “assistente” e raramente coinvolti in un lavoro d’ equipe. E’ successo anche a me.

Poi, cinque anni fa ormai, la mia coordinatrice mi chiama per offrirmi un affiancamento con una ragazzina con un quadro di autismo che avrebbe frequentato la prima media al Don Bosco. Ammetto che inizialmente, per una serie di ricordi negativi legati alla mia storia personale, ero piuttosto indecisa se accettare o meno il nuovo incarico. Mi chiedevo che ambiente avrei trovato, che insegnanti, che considerazione avrebbero avuto del mio ruolo e del mio lavoro e soprattutto che margine di libertà avrei avuto.

Oggi, non solo pensando al mio lavoro ma soprattutto al percorso che hanno fatto i ragazzi che ho seguito in questa scuola (attualmente tre: una alle medie e due alle superiori), posso dire di aver fatta la scelta migliore.

Fin dall’ inizio questa si è rivelata un’ esperienza preziosa dalla quale ho imparato tanto e ho avuto molto ma che mi ha anche permesso di trasmettere ad altri le mie competenze. Abbiamo iniziato subito a lavorare in equipe con riconoscimento e rispetto per la mia professionalità e soprattutto con la condivisione di progetti e idee. Sono sempre stata invitata a partecipare a ogni decisione riguardante i miei casi e ho avuto la straordinaria possibilità di potermi relazionare con la classe in modo da creare l’ integrazione sul campo e cercando di risolvere le difficoltà che inevitabilmente si presentano con la presenza di un alunno in situazione di difficoltà. Ho potuto parlare alla classe, descrivere le caratteristiche del loro compagno, cercare di coinvolgerli in modo da realizzare un’ accoglienza ideale. Ho potuto intervenire con fermezza quando ci sono stati episodi di intolleranza tra pari, accompagnata e appoggiata dal preside se non dal direttore e dagli insegnanti in genere. Insieme abbiamo pianificato degli interventi periodici in modo da monitorare sia il benessere dell’ utente sia l’ umore e le eventuali difficoltà della classe: questa è integrazione.

Magari un giorno questi ragazzi che oggi sono solo dei pre adolescenti che si approcciano all’ handicap con comprensibile disagio e difficoltà, ricorderanno questa esperienza e ne sapranno trarre un vantaggio spendibile nell’ età adulta.

Qui, in questa scuola ogni ragazzo è speciale, come individuo e come persona facente parte di un gruppo, di una comunità nella quale si impara a vivere prima imparando a rispettare le regole attraverso il gioco, poi attraverso la studio e le esperienze di gruppo. Credo di poter dire che questo non sia solo un insegnamento religioso ma un messaggio etico trasversale e valido a prescindere. Don Bosco cominciò la sua attività con l’idea che oltre a fare dei buoni cristiani bisognasse formare anche dei buoni cittadini: era un Santo ma anche (e soprattutto) un educatore e sapeva farlo il suo mestiere. Soprattutto sapeva che ci vuole molto coraggio per fare questo lavoro, quel coraggio che Lui da uomo di Chiesa chiamava “fede” e che io, da socia di cooperativa, chiamo “motivazione”.

Con gli anni la collaborazione tra me e la scuola, si è sviluppata ed è cresciuta. Insieme abbiamo costruito una modulistica che fosse efficace e concreta, abbiamo collaborato nello sviluppo dei percorsi educativi individualizzati e nella formazione. Abbiamo creato gruppi peer to peer cercando di realizzare una strategia educativa utile ad attivare un processo spontaneo di passaggio di conoscenze ma anche di emozioni e di esperienze tra i ragazzi. Si è cercato di costruire uno spazio che non fosse un’ aula sostegno fine a se stessa ma anche un punto di incontro fra educatori e insegnanti o un luogo in cui potessero rifugiarsi ragazzi in un momento di disagio  emotivo e personale. Qui non sono passati solo i miei ragazzi con certificazione, ma chiunque avesse bisogno di ascolto, condivisione e all’ occorrenza di fermezza. Da qui sono usciti progetti e lavori presentati in classe per dare un senso anche a un altro concetto molto attuale: la didattica inclusiva.

Integrazione, Educazione, Inclusione, Mediazione, Lavoro d’ equipe: sono possibili. Io l’ho visto accadere qui, nella scuola Don Bosco di oggi, ma credo ancora siano valori ed esempi esportabili e riproponibili e che sempre più si stia facendo strada la necessità di lavorare per un obbiettivo comune e condiviso.

Credo che noi educatori abbiamo davanti ancora molto lavoro da fare intralciato dai regolamenti a volte macchinosi dei servizi per l’ accreditamento, dalla crisi che toglie molte risorse ai progetti,dalle difficoltà che continuamente incontriamo, dalle persone, e sono tante, che non hanno ancora capito chi siamo e quanto possiamo.

Credo anche che tutto questo faccia parte del nostro lavoro e che sia un buon motivo per andare avanti, nonostante tutto.

Sabina Pillot

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