TERZO CONGRESSO DI LEGACOOPSOCIALI

Il presidente Gian Luigi Bettoli apre il dibattito per il prossimo congresso nazionale dell’associazione

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Udine

Premessa

Scrivere un documento congressuale è opera complessa, che richiede confronto tra più persone, dibattito in organismi collettivi, studi e riflessione sui dati raccolti, esame di pratiche ed esperienze. Il testo finale è solo una sintesi, provvisoria e da sottoporre al confronto degli associati.

Il terzo congresso di Legacoopsociali (quello regionale è previsto il 30 ottobre, quello nazionale il 7 ed 8 novembre, ndr) parte male, senza rispettare in alcun modo queste premesse metodologiche, e si avvia a ripetere l’esperienza di quelle assemblee annuali dell’associazione, che hanno avuto finora la caratteristica di essere soprattutto occasioni rituali, prive di grande significato.

Che si possa ipotizzare una direzione nazionale per i primi giorni di settembre, senza che la stessa presidenza non abbia potuto confrontarsi su un qualsiasi testo (e certo non sarebbe stato/sarà, forse/un passaggio esaustivo) non è di buon auspicio.

Per questo motivo ho redatto queste poche righe, prive di pretese, se non quella di puntualizzare solo alcuni punti cruciali di quello che dovrebbe essere un dibattito. Se non quello di questo congresso, forse del prossimo, speriamo.

 

Chi siamo e cosa vorremmo essere

Di solito si parla dell’organizzazione al termine di un documento congressuale. Non mi pare il caso di farlo in questa sede, dove i ritardi poco sopra evidenziati sottolineano una realtà non positiva ed evidentemente condizionante.

Legacoopsociali, al momento della sua costituzione nel 2005, ha interpretato profonde esigenze delle cooperative del settore, ed espresso grandi potenzialità propositive, non a caso riconosciute dagli interlocutori esterni. Ma, in qualche modo, l’associazione non è stata capace di esprimere al massimo livello queste sue potenzialità, rimanendo molto al di sotto delle aspettative.

In qualche modo, Legacoopsociali non esiste neanche pienamente. A fianco di una ridottissima compagine organizzativa nazionale, segnata da evidenti problemi di efficienza (per certi aspetti, la precedente presidenza aveva segnato una maggior dinamicità nella proiezione esterna dell’associazione, nella sua fase costitutiva), l’associazione non è neanche articolata sul territorio, nella maggior parte delle regioni. Se si toglie l’Emilia Romagna (dove all’esistenza autonoma di Legacoopsociali si affianca una tradizionale struttura di Federcoop provinciali che ipotecano da sempre la funzionalità del livello regionale, e non solo), la nostra associazione si è costituita solo in qualche piccola regione. Altrove, ed è il caso prevalente, il settore sociale è ancora parte di Legacoopservizi, non avendo ancora risolto quel problema di autonomia dalle majors dell’area “multiservizi” che è stato da sempre uno dei problemi da risolvere per la cooperazione sociale “Legacoop”. Le strutture territoriali sono raramente a base democratica: sono le Leghe delle Cooperative regionali che propongono o impongono i funzionari che seguono il settore; più raramente abbiamo un processo inverso, di promozione di cooperatori sociali, che “dal basso” contribuiscono a costruire un’associazione che veda protagoniste le cooperative.

Questo quadro è quello in cui, per certi aspetti ovviamente – date le premesse – si inserisce la scarsa funzionalità degli organismi dirigenti di Legacoopsociali nazionale. La presidenza – una volta “abolito” il coordinamento dei referenti regionali – ne ha in qualche modo surrogato la funzione, invece di divenire un collettivo effettivamente capace di elaborare strategie e dirigere l’associazione. Le riunioni si svolgono prevalentemente sotto forma di “briefings”, che meglio e con risparmio di tempo potrebbero essere sostituiti semplicemente dalla posta elettronica. Le direzioni non possono che essere quelle scarsamente affollate rimpatriate che facciamo ogni qualche mese, accapigliandoci su argomenti “caldi” come il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro oppure ripetendo i “briefings” a livello allargato.

Non è che siano mancati momenti alti di elaborazione, come qualche seminario – settoriale e non solo – e qualche pubblicazione. Ma non siamo stati capaci di dar loro seguito, e spesso la loro stessa elaborazione è stata più frenata che promossa dall’associazione nazionale, anteponendo problemi di ruolo o tempistiche esterne a Legacoopsociali alla realizzazione dei programmi di sviluppo associativi. In senso lato, non siamo stati capaci di sviluppare quelle partnerships, nel mondo degli studi e dell’associazionismo, che abbiamo verificato esserci, ed essere particolarmente disponibili, ogni qual volta siamo stati capaci di “uscire dal guscio”.

Non va gettato tutto il lavoro fatto, gestendo singole partite, spesso importanti. Ma certo può essere fatto meglio. La stessa unificazione tra gli uffici di Legacoopsociali e del Servizio Civile di Legacoop può essere una buona base per uno sviluppo dell’associazione, se governati nel senso del suo sviluppo culturale.

Sotto questo aspetto, è cruciale la questione del rinnovo della presidenza. Tanto per sgombrare il campo, non ritengo ci siano alternative alla conferma, per questa ulteriore tornata, di Paola Menetti. Non ci sono alternative mature, che possano in modo convincente garantire la gestione esistente ed avviare un doveroso rinnovamento. Ma non possiamo d’altronde lasciare le cose come stanno, in attesa che qualche coniglio venga estratto dal cappello tra qualche anno: viste le modalità di reclutamento territoriale, possiamo prevederne facilmente gli esiti.

Sulle alternative bisogna lavorare da subito, attraverso l’individuazione di un gruppo di lavoro (il comitato di presidenza, come scelta più evidente) affiatato, responsabilizzato ed operativamente coinvolto. Cioè qualcosa di diverso dall’organismo odierno. Un gruppo di lavoro con il quale affrontare progetti di sviluppo, costruire l’organizzazione ed individuare la leadership futura. Partendo da una politica di deleghe precise, sulle quali investire anche economicamente, invertendo una tendenza all’accentramento che è stata la cifra di questa nostra seconda presidenza.

C’è ovviamente un’alternativa: stare fermi, e lasciar correre quella che è l’alternativa più evidente. Cioè il ritorno indietro, lo scioglimento delle associazioni della cooperazione di produzione-lavoro di Legacoop in un’indistinta “area lavoro” e la perdita di quella specificità dell’impresa cooperativa sociale che connota il nostro movimento. Con una variabile (non meno insidiosa): la costruzione di un’ACI-Cooperative Sociali dall’alto, per “annessione” da parte della diversamente molto più strutturata Federsolidarietà.

Ritengo quest’ultima variabile poco realistica, in quanto penso che l’esperienza dell’ACI sia stata impostata in modo verticistico e subalterno al progetto politico del Pd, e soggetta ad una repentina crisi collaterale. Più che favorire l’unità cooperativa, le accelerazioni e semplificazioni stanno provocando tensioni, la principale delle quali è la grave scissione di Confcooperative, con la costituzione di Uecoop. Senza un processo complesso ed articolato di unificazione dal basso non andremo da nessuna parte, e la costituzione di una quarta centrale con adesioni rilevanti ci pone di fronte ad un dato di fatto: non potremo proseguire a tre, facendo finta di nulla. Penso che presto dovrà essere posto all’ordine del giorno l’allargamento della base sociale dell’ACI.

In ogni caso, e voglio anche qui essere molto esplicito, tra i “due mali” (una riunificazione dell’area lavoro in Legacoop, subordinata alle grandi multiservizi in via di allontanamento dal modello cooperativo, ed una “annessione” da parte di Federsolidarietà) non sarei neutrale. Preferisco la seconda senz’altro, perché ci lascerebbe comunque, in posizione minoritaria ma comunque con diritto di parola, spesso autorevole, all’interno di un percorso di costruzione di impresa sociale. Se mi si permette una citazione dotta: come Erasmo da Rotterdam, preferirei finire i miei giorni in territorio luterano, piuttosto che arrostire su un rogo simoniaco.

 

Impresa sociale tra nuovo Welfare e finanzcapitalismo

Il ruolo della impresa cooperativa sociale non può essere neutrale, pena l’appannarsi ed il venir meno della sua grande funzione di servizio alla collettività.

Vent’anni di finanzcapitalismo (rinvio alla lettura dell’olivettiano Luciano Gallino, per la definizione innovativa del passaggio da un “dominio del capitale” al “capitale come dominio”) hanno avuto come obiettivo primario la mercatizzazione dei servizi alla persona, nel campo della salute, dell’istruzione, della formazione, dell’abitazione, dei trasporti e dei servizi sociali ed educativi a livello planetario.

Non è la stessa cosa immaginare una cooperazione sociale ed un “terzo settore” neutrali. La stessa partecipazione al processo di privatizzazione di questi decenni assume un significato del tutto diverso, quando è strumento di inclusione sociale o di promozione di impresa autogestita da parte di giovani intellettuali e professionisti, oppure al contrario di subalterna assunzione di appalti a prescindere dalla qualità dell’offerta di servizio presentata.

Per fare solo un esempio estremo, ma illuminante, una cosa è avviare progetti di deistituzionalizzazione attraverso la creazione di strutture residenziali aperte verso il territorio, tendenzialmente intermedie verso la domiciliarità e l’inclusione comunitaria attraverso la formazione, il lavoro e l’housing sociale, oppure viceversa continuare a riprodurre “istituzioni totali”, nella migliore delle ipotesi “case di riposo” tradizionali, “case famiglia” da 25 utenti e più, quando non veri e propri campi di concentramento, come i Cie. Si tratta di discussioni che hanno attraversato la nostra associazione, rispetto alla diversa pratiche delle associate, ma che non sono state adeguatamente elaborate a livello di strategia generale.

Le stesse scelte di Legacoop (vedi la creazione di Sanicoop) non aiutano in questo senso: che senso ha produrre una cooperazione di medici autonoma, e culturalmente separata, dalla rete dei servizi sociali, sanitari, educativi e di inclusione lavorativa ed abitativa? Non rischiamo, invece che di accompagnare il transito da un Welfare State monopolisticamente pubblico verso una Welfare Community a gestione cooperativa, di essere il “cavallo di Troia” di un capitalismo finanziario sempre più aggressivo ed onnivoro, di cui pezzi dello stesso movimento cooperativo appaiono sempre più come pezzi subalterni?

La stessa espressione “terzo settore” non mi convince, e vorrei fosse sostituita da una definizione di “impresa pubblica autogestita” che ne definisca il carattere comunitario, pubblico ma non burocratico, allontanandosi da un ambito che ha come riferimento culturale l’impresa privata capitalistica: da questo punto di vista, le varie definizioni, come “no profit” vs. “privato profit” oppure “privato sociale” o infine un settore “terzo” tra privato e pubblico (visto come esclusiva burocratico-statale) sono subalterne e da superare, se vogliamo fare chiarezza sul nostro ruolo, presso l’opinione pubblica oltre che presso gli stakeholders.

E poi, siamo proprio sicuri che tutto vada inevitabilmente verso un processo di “fine della storia”? Oppure sapremo cogliere quella contraddizione costituita da un’Europa che – non ancora del tutto vinta dal neoliberismo anglosassone tatcheriano-reaganiano – mantiene almeno in parte i suoi geni socialdemocratici e cristiano-sociali, riproponendo nella sua normativa e giurisprudenza una preferenza per il ruolo pubblico nell’impresa di servizi, un favore per l’impresa sociale (in particolare cooperativa) ed un regime di favore per gli affidamenti finalizzati all’inclusione lavorativa ed alla gestione di servizi alla persona, che dovrebbero venire ulteriormente esaltati dalla nuova direttiva sugli appalti?

Concludendo questo breve intervento, vorrei sottolineare la centralità, nell’esperienza di Legacoopsociali, della cooperazione sociale di inserimento lavorativo (che mi rifiuto di chiamare ulteriormente “B”, proponendo per l’ennesima volta un acronimo più soddisfacente). Una esperienza rivoluzionaria, per il suo valore sovversivo dei ruoli, avendo trasformato – almeno tendenzialmente – l’utente in produttore e protagonista della creazione e gestione d’impresa.

Purtroppo l’esperienza della CSIL sta vivendo una fase di ripiegamento, che ripercorre fenomeni economico sociali più complessi. Stiamo assistendo ad una vera e propria tenaglia tra i tagli della spesa pubblica, la crisi economica e l’incapacità del settore cooperativo di presentarsi con risorse umane e finanziarie – ma sono soprattutto le risorse umane a mancare all’appello – all’appuntamento con quelle migliaia di crisi aziendali che potrebbero avere come sbocco l’autogestione. La stessa proiezione organizzativa di questo nostro settore di eccellenza sembra essersi schiacciata su una riflessione “corporativa”, soprattutto mirata alla pur essenziale problematica appaltistica. Anche da questo punto di vista, va messa in discussione probabilmente l’esperienza del “coordinamento delle B”, per costruire un’ “area dell’inclusione sociale” capace di una visione più allargata.

E’ necessario rimettere in discussione il circuito del nostro pensiero “alto”, sapendoci far aiutare da tutti quei singoli e think-tanks che sono attivi sul terreno dell’impresa sociale, attualmente e potenzialmente. Noi possiamo per parte nostra gettare il sasso nello stagno, ponendo il problema del superamento delle sclerotizzazioni corporative createsi all’interno della cooperazione sociale (ed analizzarne le ragioni ed i percorsi è argomento di riflessione tra quelli non secondari). Sotto questo aspetto, la frattura del diaframma tra i due tipi di cooperazione sociale, A e B, è tanto necessaria quanto la rottura di un accerchiamento.

Gian Luigi Bettoli

Presidente Legacoopsociali Fvg

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