Pordenone
Rispondo pubblicamente ad una lettera privata che il socio D mi ha inviato alcuni mesi fa, esprimendomi la sua delusione verso la cooperazione, anche quella sociale, e lo faccio perché ritengo che le criticità che rileva siano significative.
Caro socio D, mi scrivi che anche la cooperazione, secondo te, si è inserita nel circolo vizioso dei mali italiani e che ha finito col distorcere i suoi veri obiettivi – verso i lavoratori e verso l’utenza – per il tornaconto di qualcuno; che comunque l’unica preoccupazione è quella di ‘far tornare i conti in cassa, possibilmente in pareggio, se non addirittura in positivo’; una politica che ritieni incompatibile con la realizzazione della mission e con il benessere del socio.
Io non ho le risposte alle tue delusioni ma, per ciò che posso, cerco di agire dentro questo cambiamento anche per riuscire a coglierne le possibilità di miglioramento. Il sistema cooperativo nella sua interezza regge meglio di altri alla crisi semplicemente perché riesce a coniugare redditività e solidarietà. Capisco la tua avversione per il profitto, ma è un equivoco ricorrente quello della cooperativa che non deve fare gli utili, mentre la verità è che far quadrare i conti non è, e non deve essere, un obiettivo ma una condizione che, se non soddisfatta, ha delle conseguenze gravissime, prima tra tutte non riuscire più a pagare il lavoro delle persone.
Caro socio D, mi scrivi che la crisi economica non ha fatto altro che esasperare l’attenzione agli aspetti reddituali, se non addirittura farci diventare complici – per paura di perdere i privilegi fiscali – del sistema pubblico che, da una parte, taglia le spese del welfare e, dall’altra continua, a sprecare.
Ti confesso che anch’io, tanti anni fa, ho vissuto con un vago senso di colpa la prepotente esternalizzazione dei servizi socio assistenziali che ha consentito anche a noi di Itaca di crescere, proprio perché sapevo che molte scelte non erano basate su una proposta politica coerente con le prospettive socio economiche ma dettate da banali esigenze di risparmio.
Non siamo complici, anzi, forse abbiamo rallentato, e in alcuni casi evitato, una deriva speculativa che in altri settori di pubblica utilità è già arrivata, ma sapendo oggi come è andata, quando è nata la cooperazione sociale avremmo cercato di condizionare di più e meglio il nostro intervento.
Lo scorso giugno 2013 c’è stata una Risoluzione del Parlamento Europeo che, evidenziando il contributo delle cooperative al superamento della crisi, sottolinea la necessità di un quadro normativo più chiaro e sensato per le stesse, ed esorta gli Stati membri a rimuovere tutti gli ostacoli giuridici, amministrativi o burocratici, sollecitando l’inserimento delle cooperative negli obiettivi di politica industriale dell’Unione Europea. Caro socio D, gli svantaggi fiscali fanno paura solo a coloro che gli utili se li portano nei paradisi, mentre a noi serve urgentemente un assetto istituzionale che ci restituisca la dignità e il ruolo che meritiamo nello sviluppo dell’economia sociale; un settore che in Italia è tenuto in piedi da un milione di lavoratori e 5 milioni di volontari (dati censimento Istat sul No Profit).
Caro socio D, mi scrivi che hai visto molti cambiamenti e che sempre più spesso le tante facce di Itaca sono quelle di persone che probabilmente non sanno dove sono e anche questo contribuisce alla tua frustrazione e all’impoverimento del settore.
Socio D, grazie per gli attestati di stima che mi hai rivolto all’indomani della mia elezione a Presidente, grazie per gli auguri di lavoro positivo e di miglioramento. Ma non mi basta. Abbiamo bisogni di tutti ed anche di te per promuovere partecipazione e per comunicare; non mi piace il verbo ‘rilanciare’, proprio perché dentro il cambiamento che ha deluso e sconcertato anche te dobbiamo sperimentare nuovi sistemi di confronto, nuovi ‘patti sociali’.
Ho letto un simpatico articolo della rivista Vita – Non profit, i 10 miti da sfatare di Gabriella Meroni – sui pregiudizi a cui sono sottoposti i lavoratori del terzo settore, tra i quali quello che nel non profit lavorano i delusi o i falliti del profit. La verità è un’altra, perciò socio D non solo devi continuare ad avere la forza e il coraggio di esprimere le tue idee (anzi ti ringrazio per questo), ma devi aiutarmi anche tu a smentire un altro pregiudizio: non posso lavorare nel non profit perché non sono ricco.
Forse un pregiudizio ce l’ho anch’io: chi lavora nel non profit si veste un po’ male! Ma solo perché, essendo più liberi, ce lo possiamo permettere.
La Presidente
Orietta Antonini
“avendo saputo allora come sarebbe andata”: ecco che in una frase si riassume una ingenuità del mondo cooperativo che è subentrato allo Stato facendo meglio lo stesso lavoro quando avrebbe dovuto vedere che la finis Austriae del welfare dipendeva dal TIPO di lavoro e non dal MODO più o meno sprecone. Non è vero che ormai si può solo tirare avanti così, perchè tutto il meccanismo è basato sulla circolazione della moneta. Le imposte allo Stato, le convenzioni alle Coop, gli stipendi (gli affitti, il riscaldamento…) al personale, i servizi all’utenza. E quando lo Stato chiuderà il flusso? Quanto si resiste senza moneta in un mondo di transazioni monetarie? Quanti mesi senza stipendio possono andare avanti i dipendenti? O senza riscaldamento quando le bollette sono insolute? A me sembra che OGGI l’erogazione di servizi dovrebbe assumere una forma di comunità solidale con persone residenti in collegamento tra loro, dotate di forze e debolezze complementari in ottica di almeno parziale autosufficienza: legna e stufe a legna, pollaio e uova, orto e verdure, giardiniere e giardino, anziano e esodato, bambino e studente universitario fuori sede… Chiudono le fabbriche, riapriamo le fattorie patriarcali del non lontano passato, dove si sono superate crisi ben peggiori dell’attuale. saluti, Elda De Cecco Burgos di Pomaretto, Castions di Zoppola